“Nessuno è mai riuscito a mandarmi al tappeto. A parte le mie sei mogli”. Così scherzava Giacobbe, pensando che mai nessuno era riuscito a stenderlo al tappeto, batterlo sì ma mai per fuori combattimento. Ne andava fiero; arrivando a irridere il superlativo Ray Robinson, che aveva vinto il mondiale contro di lui, un incontro che per la violenza e il sangue sgorgato da Jake La Motta fu chiamato il massacro di San Valentino. Ma l’italiano fu fermato dall’arbitro, appoggiato alle corde non voleva andare giù. “Ray hai vinto ma non mi hai steso”. I due si erano già incontrati cinque volte, LaMotta ne vinse solo una, ci scherzava: «Ho incontrato tante volte Sugar, che mi è venuto il diabete»… Oggi Giacobbe La Motta avrebbe compiuto 100 anni, quando ci lasciò 19 settembre 2017 a 95 anni non ci credevamo, per noi era immortale, era ancora lui il campione mondiale pesi medi che nessuno aveva messo ko, quel 19 settembre 2017 però è andato al tappeto, ma forse se avessero contato fino a 10, il vecchio Toro Scatenato si sarebbe rialzato, anche contro la Morte. Ci ha lasciato uno dei miti della boxe, reso ancora più grande dal capolavoro di Martin Scorsese “Raging Bull” con uno straordinario Robert De Niro nella parte del “toro”; si allenò con Jake per fare al meglio il pugile nel film, ingrassò poi 20 kg per essere poi il Jake anziano. Ma eravamo sicuri di un fatto: nessuno l’avrebbe dimenticato e così è stato, anche ora a 5 anni dalla morte e 100 dalla nascita.
Figlio di un siciliano, figlio dei bassifondi di New York, una vita di stenti. Raccontava ridendo: «Eravamo così poveri che a Natale il mio vecchio usciva di casa, sparava un colpo di pistola in aria, poi rientrava in casa e diceva: spiacente ma Babbo Natale si è suicidato». Poi la strada, i furti, gli scontri con l’amico nemico di sempre, un ragazzo che parlava bene il napoletano e male l’inglese ma pestava da far paura: si chiamava Rocco Barbella, diverrà famoso come Rocky Graziano. Poi il riformatorio, come biglietto da visita il giovane Jake picchiò sei secondini. Lo bastonarono a sangue ma non cadde. Nessuno poteva. Sul ring, una furia, non aveva gran pugno ma conosceva la boxe, abile nel corpo a corpo e media distanza, incassatore eccezionale, una boxe poco ortodossa, adattata al suo fisico, portava tutti i colpi. Non era un picchiatore come nel film, ma un fighter, un rullo compressore che sapeva l’arte del pugilato. Non uno stilista ma un signor pugile. Che dire di Jake Lamotta, all’anagrafe Giacobbe La Motta, nato a New York il 10 luglio 1922 e scomparso sempre nella Grande Mela a 95 anni. Rimarrà uno di quegli immortali della boxe, dopo Alì se ne andava una leggenda vivente. Campione mondiale dei medi quando batté il grande Marcel Cerdan nel 1949, lasciò il titolo al superlativo Ray Sugar Robinson il 14 febbraio 1951. Medio naturale ma combatteva anche nei mediomassimi, 106 incontri con 83 vittorie- solo 30 prima del limite, 19 sconfitte – solo 4 prima del limite – e quattro pareggi. Tra le sue vittime Robinson, Marcel Cerdan, Fritzie Zivic, Holman Williams, Bob Satterfield, Tony Janiro, Laurent Dauthuille, Anton Raadik, Tommy Yarosz, Robert Villemain, Dick Wagner, Tommy Bell e Tiberio Mitri. Quando gli parlavano di Graziano diceva sempre che da piccolo lo chiamavano testa di rapa, Graziano rispondeva: « sapete quanto era popolare Jake da piccolo? Quando giocavamo a nascondino, nessuno lo cercava». Si parlò di un incontro tra i due, Graziano poi si fratturò il braccio, qualcuno diceva che il gesso era stato messo solo per evitare l’incontro. Troppo amici, di giochi, strada e riformatorio. Jake una volta disse: «Con Rocky ci siamo battuti spesso e gratis da giovani, perché dovremmo farlo per soldi ora». L’unico suo rimpianto è di aver venduto l’incontro con Billy Fox, un mediomassimo; si fece sconfiggere al quarto round, era la cambiale alla mafia della boxe per poter arrivare al titolo mondiale. Se ne è sempre vergognato, ma fu costretto per avere la possibilità del mondiale. Il resto sono tutte vittorie e sconfitte giuste e pulite. Con i soldi fatti da campione, comprò una casa a Messina per il padre, ci scherzava sempre: «Si fa la bella vita in Sicilia alla faccia mia». Era legato all’Italia, e se la rideva che nel Bel Paese sbagliassero sempre il suo nome: “Mi chiamano Jack e non Jake, in realtà mi chiamo Giacobbe, ma fa nulla. Anzi mi sembra strano che si ricordano di me dopo tanti anni». In realtà non sarà dimenticato mai, resterà nella storia della Noble Art.