patrizio_oliva_e_fabio_oliva d7227511-28fb-4d7a-a229-2f3813e97cd8 - Copia come oggetto avanzato-1 a5c7b257-a334-44ad-a4b7-836c47909d68 - Copia come oggetto avanzato-1Fabio Rocco Oliva è da tempo un prezioso collaboratore della Rivista Federale Boxe Ring. Il suo cognome non è una semplice omonimia nel mondo dei guantoni, visto che è il nipote prediletto di Patrizio con il quale ha scritto “Lo sparviero”, edizione Sperling & Kupfer, una biografia romanzata divenuta in poco tempo un best seller. Adesso Fabio Rocco, tra l’altro soggettista teatrale, ha scritto un altro libro, stavolta al di fuori della boxe, ma che ci fa e farà riflettere: “La canzone dei migranti” che è la storia della vita e del suo migrare, del continuo divenire dell’uomo, tra ciò che era un tempo e ciò che ancora non è. Il libro è edito da © goWare 2016, Firenze, prima edizione digitale italiana.

La boxe e il cognome che porti in cosa ti hanno condizionato nella vita tua reale, soprattutto di scrittore.

Fortunatamente, la boxe ha sempre fatto parte della mia vita. Ho ricordi vivi di quando da bambino a casa di mio nonno leggevo la rivista Boxe Ring e rimanevo letteralmente rapito dal volto dei pugili. In quegli occhi ho sempre visto la fame di vivere e la furia di afferrare la vita oltre ogni difficoltà. Ricordo che a casa di mio nonno arrivava una lettera della Wba dove c’era l’elenco di tutti i campioni del mondo del momento insieme a quelli storici. Io mi incantavo a leggere quei nomi e a studiare le foto che accompagnavano le loro statistiche. Avevo sette-otto anni. Ricordo il viso di Roberto Duran, duro come un macigno che non teme nulla; ricordo il volto di Thomas Hearns del quale mi colpiva quella assurda fusione di malinconia e ferocia; il sorriso sornione di Sugar Ray Leonard e quello ancora più poetico e irraggiungibile del più grande, Alì, la sua massa muscolare perfetta e la sua infinita eleganza di movimento; ricordo perfettamente la foto non a colori di Marvin Hagler, tra i miei pugili preferiti in assoluto, una macchina da guerra, un carrarmato (negli anni poi ho visto e rivisto tante volte il suo match con Sugar Ray Leonard, e con un amico ancora ne parliamo, ancora cerchiamo di capire). E ovviamente ricordo il volto giovane di mio zio, nei suoi lineamenti puliti ho percepito sempre l’arte della boxe, quella filosofia di vita che schiva e contrasta le macerie per costruire il bello. Ho sempre visto i suoi guantoni non come il trionfo della violenza ma come arte creativa. Quando ero piccolo, a casa di mio nonno, vedevo quei guantoni e osservavo le mie mani. Sapevo che non avrei mai fatto il pugile ma che del pugile avevo ereditato qualcosa: la volontà creativa oltre le macerie che ci sono intorno. Il pugilato e la scrittura sono l’uno il doppio dell’altro: lo scrittore e il pugile si mettono a nudo di fronte il loro avversario che non è il ring, né la pagina bianca, né tanto meno un pugile o il lettore ma se stessi, il ring e la pagina bianca. Il pugile e lo scrittore hanno il loro destino assolutamente nelle loro mani dove la tecnica e la fantasia sono i pilastri del loro agire. Soprattutto, un pugile e uno scrittore sono due esseri umani soli, da solo un pugile è sul ring, da solo uno scrittore è seduto di fronte alla storia che deve raccontare. Nell’atto creativo quella solitudine è una ricchezza sconfinata, dove il coraggio e l’onestà arricchiscono, dove la fragilità è forza e gli occhi vedono l’invisibile oltre il concreto.

Hai qualche modello in letteratura? Il tuo stile…

Io credo che prima di essere scrittori bisogna essere lettori, avidi e curiosi. Porto con me l’insegnamento della mia professoressa di italiano e latino del liceo: interrogate sempre i classici. Io interrogo continuamente Feodor Dostoeskij, James Joyce, Albert Camus, Lucrezio, Eschilo, Archiloco, Pasolini, Gramsci, Faulkner, Steinbeck, Kerouac, Ginsberg, Mnacko (auotre sconosciuto purtroppo, incontrato in una lettura di Pasolini), Kafka, Frazier, Nietzsche. Pilastri che splendono nello stile e nel contenuto, che posseggono il dono meraviglioso di svelare ogni volta qualcosa di diverso quando li rileggo. Jack London, Ernest Hemingway, Seneca, Tacito e Tucidide, Apuleio e Petronio, Melville, Levi e Katzetnik 135633 (incontrato nelle note dei Joy Division), Baudelaire, Fante e l’infinito e violento e ancora da studiare e capire Antonin Artaud, Caldwell, Beckett e Wiesel e il sommo Virgilio. Ne sono molti e altri ancora ce ne sono (Borges, Zola, Bukowski ed Erri De Luca), ognuno di loro mi ha insegnato una nota musicale e un ritmo preciso, un linguaggio particolare, un modo di costruire la storia, le strutture del raccontare e l’animo umano, la profondità della visione oltre il limite della rassicurante semplificazione. Tutti i filosofi greci mi hanno aperto la mente, mi hanno insegnato che l’arte (filosofia, letteratura, pittura, musica) non è mai lontana dalla realtà quotidiana, ad essa è sempre legata. L’arte non è un vuoto gioco intellettualistico, è poesia concreta, è fare, rendere materico il pensiero, le percezioni, l’invisibile che determina la materia.

Il tuo rapporto con Patrizio sfociato letterariamente con Sparviero…

È stato tutto naturale. Entrambi avevamo la stessa idea: scrivere un romanzo su ciò che pulsa nella testa di un pugile. L’idea non era quella di fare un semplice libro dove ripercorrere le tappe della sua carriera ma fare qualcosa in più, qualcosa che potesse restare nel tempo e interessare non solo gli addetti ai lavori. Abbiamo voluto mostrare che l’uomo può decidere del proprio destino anche quando tutto sembra negargli la possibilità di realizzare il suo sogno; dimostrare come la misura che determina l’uomo non è l’arroganza o la violenza ma la capacità di capovolgere in punto di forza le proprie fragilità. Io amo scrivere di uomini che la società vorrebbe relegare ai margini, che vorrebbe escludere e che invece scoprono all’interno di loro stessi delle forze invisibile che distruggono le catene. Amo scrivere di uomini che lottano per il proprio posto nel mondo, di uomini che dicono di no alla condanna e di sì alla vita e l’affrontano a viso aperto. Amo scrivere di uomini e donne che siano fuoco, che sappiano infiammare e ruggire. Tutto questo è stato semplice e naturale in Sparviero, non abbiamo avuto bisogno di spiegarci queste cose, le sentivamo alla stessa maniera.

Perché hai scritto il romanzo La canzone de migranti? quale è stata la molla che ti ha spinto…

L’idea di questo libro si è presentata nel 2007. Ero in terapia intensiva al Cardarelli. Ero lì a sostenere mia madre, ad accompagnarla nei suoi ultimi giorni. Una battaglia violenta finita male per un trapianto di fegato arrivato troppo tardi. In quei giorni accanto al suo letto, scrivevo la tesi di laurea in storia del teatro sulla glossolalia in Antonin Artaud e per tenermi in vita scrivevo un romanzo su ciò che accadeva in ospedale (Salamandre, romanzo al quale sto ancora lavorando). Lì in terapia intensiva c’era un bambino palestinese che era arrivato in Italia grazie ad un ente umanitario. Anche il piccolo, come mia madre, aveva bisogno di un trapianto di fegato. Non l’ho mai visto sveglio, l’ho sempre visto dormire tra i tubi. Di fronte alla porta della terapia intensiva, nell’attesa di entrare per andare a portare conforto e un sorriso ai nostri cari, c’era un uomo, un palestinese, il padre del bambino. Abbiamo iniziato a parlare per cercare di superare l’angoscia dell’attesa, di quella regione in cui non si è più quello che eravamo prima e non si è ancora quello cui si è destinati ad essere. Parlavamo ognuno nella sua lingua e non sapevamo cosa dicevamo ma parlavamo, sorridevamo e aspettavamo insieme. Lui dormiva lì in ospedale, su un letto di fortuna, anche io dormivo in ospedale su un letto di fortuna (avevo una sdraio ma me la rubarono!). Mia madre e suo figlio morirono dopo qualche settimana l’uno dall’altro. Un giorno non vidi più quell’uomo fuori la porta della sala d’attesa e capii. Da quel momento ho iniziato a pensare ad una storia che riguardasse i migranti, di come noi e loro siamo le stesse attese e siamo lo stesso senso di umanità. Nel dolore ci si riconosce simili. Pensavo ad una storia che potesse raccontare loro e noi, come uomini che condividono uno stesso destino, una stessa condizione (ruthmòs, direbbero i greci). Nel 2010 accaddero poi i fatti di Rosarno. Mi ero laureato intanto ed ero in cerca di un lavoro stabile, e mi sentivo tagliato fuori dal mondo: essere qui ma non essere più e non essere ancora. Gli africani vennero sparati dopo essere stati sfruttati nella raccolta delle arance, scesero in piazza, bruciarono e distrussero, ci furono scontri e furono deportati altrove. Contemporaneamente dall’altro lato di Rosarno, a Riace, oltre l’Aspromonte, il sindaco del paesino noto per i bronzi, per gli uomini di bronzo, aveva bisogno di uomini in carne ed ossa. Erano lì. Dall’altro lato della montagna. Da un lato dunque li cacciavano, dall’altro ce n’era bisogno. Allora mi sono chiesto: che cosa ci unisce oltre le differenze? Ho iniziato a parlare con loro, ogni volta che si presentava l’occasione mi facevo raccontare le loro storie e i loro viaggi. A Napoli ci sono molti africani che hanno voglia di parlare, basta non ignorarli, basta ascoltarli dopo aver preso una loro tartaruga di legno o un piccolo tamburo. Mi hanno raccontato le loro storie così come si parla con una persona qualunque. Ho accumulato nel tempo molto materiale, ho letto libri sulla migrazione, ho letto documenti di diritto internazionale, ho visitato Rosarno, ho parlato con amici che lavorano in centri di accoglienza e ho scritto un primo racconto dal titolo “La neve sull’Aspromonte”, attraverso Mario Gelardi, per Caracò in una raccolta dal titolo Italian Shorts. Ho poi continuato a pensare a questa storia per anni fino a scriverla poi in sei mesi. Il tempo di riflessione è più importante del tempo di scrittura. La scrittura è un ascolto e una visione, quando scrivo sento e vedo mentre le dita battono sulla tastiera del computer. Non sono io, sono loro che si manifestano e si concretizzano.

Scrivere su un tema così delicato in un momento di così forte contrasto, al limite del razzismo, ti ha creato qualche problema?

Uno scrittore non deve pensare mai se ciò che scrive può creargli dei problemi. Fa parte del mestiere. L’odio per i migranti è un falso odio, è un odio montato per coprire altro. Oggi purtroppo mentre indirizziamo l’odio contro i migranti, ci sfugge quanto orrore il mondo Occidentale stia creando e il rischio di portare tutto alla rovina non è tanto lontano, la deriva bellica in Medio Oriente è qualcosa di cui siamo terribilmente colpevoli. Dunque anche per questo ho voluto scrivere questo libro, affinché sia un romanzo di pace, oggi e non solo oggi, un romanzo che canti la pace gratificando la differenza che non è distanza da temere ma ricchezza da coltivare sempre. Noi siamo figli di Virgilio, il sommo poeta sostituito da San Gennaro, il quale ha scritto l’Eneide che è proprio il poema del riscatto del profugo. Enea è uno sconfitto, ha perso la guerra, fugge dalla sua città distrutta dalla furia devastante dei greci, dell’Occidente, attraversa il mare, giunge in Sicilia, da lì nel Lazio dove lotterà con Turno per avere il suo posto nel mondo. Sposerà una donna del luogo, del Lazio, e dalla loro unione verrà una stirpe che nei secoli genererà i fondatori di Roma, la patria della cultura europea.

E Virgilio scrive quest’opera durante l’impero di Augusto, quando la cultura era protetta dal circolo di Mecenate. Ed oggi? La cultura da più di vent’anni è umiliata e questo ha portato gravi conseguenze, ha permesso all’intolleranza e alla stupidità di prendere il sopravvento, ha permesso che idee come “l’Islam è una religione di odio e i musulmani sono cattivi” di farsi strada. È chiaro che l’Islam non è il problema, è chiaro che l’Islam è una religione e in quanto tale è vocazione alla pace e alla conciliazione. Le religioni, e io sono ateo, non invitano alla distruzione ma alla conservazione dell’uomo. Gli uomini invece utilizzano la religione come strumento di guerra, pensiamo ai crociati. Ho voluto scrivere questo romanzo per andare oltre i luoghi comuni, essere tra di loro per essere tra di noi. Tra noi e loro non c’è molta differenza e non mi riferisco solo al nostro passato di migranti quando con le valigie di cartone siamo andati negli Stati Uniti o in Svizzera e in Germania. Siamo vicini nella stessa condizione esistenziale (anche se non mi piace questo termine). Con le dovute differenze concrete (guerre, malattie, dittature), noi condividiamo lo stesso ruthmòs di vita: non siamo più chi eravamo un tempo e non siamo ancora ciò verso cui tendiamo.

Cosa fare in questa regione dell’esistenza? Puntarci i fucili contro o costruire insieme una nuova epoca? Nel romanzo i migranti marciano sempre, sono sempre in cammino verso un luogo, così noi tutti siamo chiamati ad andare, a seguire il continuo divenire dell’essere. Mentre marciamo dobbiamo ricordarci che siamo Esseri Umani, la dignità e la libertà dei quali va sempre preservata.

(al. br.)

Di Alfredo