Ci ha lasciato anche Eddie Perkins, un grandissimo campione, per certi versi più conosciuto nel resto del mondo che negli Stati Uniti a Chicago che fu la sua residenza da quando aveva un anno. Aveva 75 anni e da tempo soffriva per una demenza senile, ma soprattutto per un diabete crudele che non gli dava tregua. In Italia sono in molti a ricordarlo per le sue tre epiche sfide con Duilio Loi per il titolo mondiale dei superleggeri. Quando si presentò a Milano nel 1960 per battersi con il grande Duilio, campione del mondo, per certi versi la stampa specializzata un po’ lo snobbò. Contro il sardo-triestino residente a Milano il simpatico negretto sembrava avere poche chances. Eppure, all’ epoca 23enne, aveva superato gente del calibro di Larry Boardman, Paolo Rosi, il reatino dalla potenza devastante, Gene Gresham, Frankie Ryff e soprattutto il venezuelano Carlos Hernandez, futuro campione del mondo. Le sue vittorie erano bilanciate, però, da sconfitte con pugili non giudicati eccelsi come il messicano Alfredo Urbina e Lahouari Godih, pugile algerino in tournèe in America. Perkins non aveva potenza, ma oltre ad un’incredibile velocità di braccia faceva sfoggio di intelligenza tattica, da vecchio veterano. Anche lui come Loi non era alto, ma aveva fisico da peso medio con allungo breve, collo corto e buone doti di incassatore.
Fu Steve Klaus a sceglierlo come avversario di Loi per il titolo, proprio perché ritenuto privo di potenza, mentre in un primo tempo si parlava di Paolo Rosi. Quando Perkins scese le scalette dall’aeroporto milanese non fece una grande impressione. Ma tutti si dovettero ricredere vedendolo allenarsi sotto lo sguardo attento del suo manager Johnny Coulon (ex campione del mondo dei gallo). La sera del 21 ottobre del 1961 Eddie Perkins, 23 anni, di fronte a Duilio Loi, 32 anni, avrebbe dovuto fare la figura dell’allievo di fronte al maestro; ma non fu così perché in molte fasi del match le parti sembravano invertite. Nel primo round lo sfidante assestò un terribile destro nel volto del campione, che sentì senz’altro. Il match fu noioso, perché Perkins era un attendista che bruciava sul tempo l’avversario quando era attaccato, Loi, dal canto suo, si trovò, anche lui buon incontrista, di fronte ad un enigma tattico non facile da risolvere. L’arbitro Nello Barrovecchio fu costretto in alcune occasioni a sollecitare i due ad un maggiore ardore. Il match finì in parità, ma molti scrissero che era iniziata la parabola discendente di Loi. Un anno dopo i due si ritrovarono di fronte: stavolta fu Steve Klaus a non volere il nero, ma a sceglierlo invece fu il pugile triestino, perché voleva vendicare una prestazione rimastagli nel gozzo e che aveva ferito il suo orgoglio. Il match si svolse al Vigorelli davanti a circa 25mila persone. Loi, probabilmente per una questione di surmenage, non si presentò al meglio sul ring, alle operazioni di peso aveva faticato a rientrare nei limiti. Quella sera il grande campione scese le scalette nettamente sconfitto e pieno di rabbia. Perkins aveva costruito quel match con il suo sinistro che anticipava regolarmente quello di Loi e lo completava con una fiondata di destro al corpo. Perkins dal canto suo, freschissimo, concluse la serata in un locale notturno milanese. C’era la clausola della rivincita e l’americano tornò di buon grado a Milano. In America lo schivavano come la peste, perché chi lo affrontava rischiava non solo la sconfitta, ma anche la brutta figura. Ma c’era una cosa che gli americani non gli perdonavano: non era un fighter, non attaccava, e quindi non era la quintessenza del pugilato che gli yankees gradivano. Quando Perkins si presentò il 15 dicembre sul ring del Palasport milanese capì che sarebbe stata una serata difficile. Duilio Loi si era allenato con la foga di un certosino, non aveva tralascia niente; voleva capire una volta per tutte se Perkins era il migliore. Il pugile di Chicago oltre ad un Loi decisamente più valido dei due match precedenti aveva contro tutto il pubblico, che fischiava quando lui colpiva e che applaudiva con entusiasmo quando Loi accennava ad attaccare. Il match fu abbastanza equilibrato, Loi aveva esercitato una costante iniziativa fino all’ultima ripresa e l’arbitro francese Gondre prese spunto da questo per alzare il braccio al pugile di casa, che tornava campione.
Perkins non fece subito il rientro in America, ma si stabilì per breve tempo in Francia. Sbalordì i francesi quando mise ko Omrane Sadok, molto più pesante di lui e dotato di potenza micidiale. Un mese dopo, sempre davanti al pubblico parigino, regolò ai punti il fantasioso cubano Angel “Robinson” Garcia. Duilio dopo l’ultimo match con Perkins annunciò il ritiro, così il titolo mondiale dei superleggeri WBC rimase vacante. Si organizzò quindi un match tra Perkins e il filippino Roberto Cruz, fresco campione WBA. Il match si svolse a Manila: per Cruz, nonostante fosse di 10 cm più alto non ci fu niente da fare finendo sconfitto nettamente e senza averci capito granchè. Il pugile di Chicago, specializzato nel tocca e fuga, conservò il titolo per circa due anni, a tratti modificando il suo stile con una maggiore intraprendenza e maggiore consistenza. Il titolo gli fu tolto dal venezuelano Carlos Hernandez, e logicamente il match si svolse a Caracas con un verdetto che lasciò qualche dubbio.
Perkins dopo la sconfitta con Hernandez non ebbe più l’opportunità di combattere per un titolo. Continuò il suo destino di giramondo affrontando i più forti, senza guardare al peso. Furono in pochi ad avere l’onore di batterlo (tra questi Josè Napoles e Rocky Mattioli con qualche chilo in più). Si ritirò nel 1975 dopo vent’anni di carriera svolta come un “Harlem Globetrotter” su tutti i ring del mondo. Per certi versi da vivo nessuno lo volle identificare come uno dei più grandi di tutti i tempi della sua categoria, lo si sta facendo adesso dopo la sua morte: un doveroso tributo nei riguardi di un atleta che aveva il fisico di un medio e la tecnica e la velocità di un piuma.