DI LEONARDO PISANI
Era un giorno d’ottobre di 50 anni fa, un normale giorno autunnale per tanti, ma non per chi viveva in quell’angolo di mamma Africa, ma pochi pensavano che lì in quella giovane nazione, nata dopo le atrocità del colonialismo belga, in quel Zaire si sarebbe assistito a una vera battaglia epica, uno scontro tra Titani, a un miracolo della Noble Art. Un caldo torrenziale poi un diluvio, sembrava che anche Mamma Africa gioisse per una vittoria o piangesse per una sconfitta, Chissà, la gloria è per i vincenti, con il tempo anche si da ragione ai vinti. Il colosso che fece sentire il suo rumore cadendo sulla stuoia dopo anni ammise:« Ero troppo sicuro di me quando ci combattei. Avevo battuto pugili che lo avevano battuto come Frazier e Norton. Pensai che tutto si riduceva a questo: devo avere un po’ di pietà di lui o no? Pensavo che sarebbe stato solo la prossima vittima da KO per la mia carriera, quando al settimo round lo colpii duro al mento e lui mi sussurrava nell’ orecchio “tutto qui, George?”. Fu allora che capii che le cose non stavano andando affatto come pensavo che dovevano andare. Non avevo mai perso prima. Ero sicuro della mia enorme potenza che per anni ho dato tutto per scontato. Poi pensai che mi avessero imbrogliato, che stavo vincendo io, che qualcuno aveva commesso un errore. Nel 1981 un giornalista venne da me e mi chiese allora “George che cosa è¨ davvero successo in Africa”? Allora lo dovetti guardare negli occhi, e dissi: ho perso, mi ha battuto. » Forse sarà stata una magia, nessuno pensava che il vecchio campione dei pesi massimi Cassius Clay, per anni in Italia lo abbiamo chiamato così, mentre il mondo e la prigione yankee lo conosceva come Muhammad Alì, potesse compiere il miracolo. Riconquistare il titolo mondiale dei massimi, solo il piccolo Floyd Patterson ci era riuscito battendo lo svedese Ingemar Johansson, un pugile che al posto del destro aveva il martello Thor. Avevano fallito Corbett, Fitzsimmons, Jeffries, il grande Dempsey, Schmeling, l’immenso Louis o Charles e Walcott, lo stesso Muhamad Ali contro Frazier. 30 ottobre 1974, Kinshasa allora sconosciuta al mondo arriva il miracolo, la magia il sortilegio pugilistico, mediatico, psicologico del ragazzo di Louisville nel Kentucky. La cruda cronaca potrebbe dire lo sfidante mette ko alla ottava ripresa con un largo destro il titolare, che cade facendo un tonfo e un rumor sordo. M quello stadio che gridava “Alì Bomaye Alì Bomaye” nella lingua congolese “Alì ammazzalo”, senso figurato certo ma una nazione che da un mese faceva festa e ballava, erano al centro del mondo, prima era il Congo Belga, poi da appena tre anni si chiamava Zaire per volere di Mobutu Sese Seko e durata dal 27 ottobre 1971 al 17 maggio 1997. Ora si chiama Repubblica Democratica del Congo. Un paese della profonda Africa, che nessuno conosceva, Mobutu Sese Seko dal cappello leopardato, capo padrone di un paese uscito dal colonialismo, volle dare una risvolta mediatica: il primo titolo mondiale dei pesi massimi in Africa con due discendenti africani e campioni olimpionici: il colosso George Foreman dal Texas e il più grande dei grandi Muhammad Alì, che perse il titolo perché non volle andare in Vietnam.Il campione della “razza nera” che poi ammise di avere un antenato italiano di Venezia: Bartolomeo Tagliaferro. Non fu un incontro, fu una battaglia epica, e tra quei tamburi che suonavano e tra i cori che cantavano “Ali Bomaye Alì Bomaye” anche lui un ragazzino Meda Mudimbi, futuro pugile, fece 40 chilometri per andare dal suo villaggio a Kinshasa, vide Alì e mi racconta:”parlava parlava sempre con tutti, ci parlava”. Riesce a scavalcare i muri dello stadio e a vedere l’apoteosi. Dopo oltre 40 anni mi confidò:« Forse se Alì avesse affrontato Foreman in qualunque altro posto avrebbe perso». Del resto quasi tutti credevano che fosse impossibile per l’antico Re dei Massimi spodestare il nuovo sovrano, un colosso che vinceva sempre, e per ko. Aveva distrutto Frazier a Kingston, lo aveva letteralmente sollevato con i suoi montanti, Smokin’ Joe stava più al tappeto e in aria che in piedi. Distrutto il mandingo Ken Norton, altro colosso,. Già forse il giovane Foreman vinceva troppo facilmente, questo Alì lo sapeva…Lo dico a Sumbu Kalambay lo straordinario campione mondale dei pesi medi , all’epoca giovane inesperto pugile poi con Meda vennero in Italia, due stupendi pugili e due persone straordinarie – parole sue- e da ragione a Meda: «Ne sono convinto anche io. Sai io ho visto incontro in televisione ma per un mese fu festa, alto parlanti concerti». Tutti per Alì, alla domanda ma Foreman? Perché tifavate contro? La risposta unanime: aveva qualcosa in più di magnetico. L’ho chiesto a Patrizio Oliva, anche lui olimpionico che ha conosciuto Alì: la risposta colta di Patrizio: pugile immenso, magnetismo, fascino ma anche un simbolo della lotta contro il razzismo. Già… Rumble in the Jungle, Il Mondo conosce lo Zaire, Alì fa la sua magia e quando vede cadere Foreman, sta fermo, potrebbe mettergli un altro cazzotto. Foreman dirà dopo anni: io lo avrei fatto. Poi ho capito che Muhammad era il più grande di noi anche per questo. Dario Torromeo, ha scritto con la sua raffinata e sobria penna in “I pugni degli eroi” di Franco Esposito e Dario Torromeo, Absolutely Free editore: ««Vola come una farfalla, pungi come un’ape» Bundini Brown continuava a ripetere il mantra, ma Ali sapeva che il tempo di danzare era finito. Bisognava solo aspettare. L’altro prima o poi sarebbe crollato, avrebbe mostrato un varco dove insinuarsi. E lui sarebbe stato pronto. La mente di Foreman avrebbe ceduto prima del fisico. E così si sarebbe esposto al genio del rivale. Ali era pronto. Sapeva che avrebbe dovuto soffrire e si era preparato a questo. Si era fatto torturare dai colpi di Larry Holmes in allenamento, aveva alzato la soglia del dolore a limiti impensabili. Quando la guerra sarebbe diventata un campo solo per eroi, lui ci sarebbe stato. «Ali bomaye, Ali bomaye, Ali bomaye».
I diseredati, i poveri, i ragazzi che vivevano nelle baracche lungo il fiume Congo, le vittime del dittatore Mobutu. Erano tutti con lui e lo incitavano a “uccidere” il gigante bianco travestito da nero. Nessuno amava George Foreman, che era solo nella notte africana. E non capiva il perché.Era il 30 ottobre del 1974, una data indimenticabile scritta nel grande libro della boxe. Ali soffriva per sei round, nell’ottavo dipingeva il capolavoro di un’artista. Usciva dall’angolo, metteva a segno una serie che sembrava infinita, chiudeva con un destro che veniva direttamente dal cielo Big George era knock out, Ali era di nuovo campione del mondo. Su Kinshasa si abbatteva un temporale di una forza inaudita, anche il cielo aveva voluto spazzare via a colpi d’acqua le bruttezze della vita. Quando la pioggia era finita, a illuminare la scena era rimasta solo la pulizia del gesto di Muhammad Ali. Il più grande.». When We Were Kings, Quando eravamo re ma lo sono ancora, quel incontro va oltre i confini della Noble art, è epica, è mito, è storia, è colore e suoni, è arte pura nel caleidoscopio di vite straordinarie di uomini straordinari. Impossibile non è un dato di fatto, è un’opinione. Impossibile non è una regola, è una sfida.
«Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre. Niente è impossibile» ( Muhammad Alì ( Louisville 17 gennaio 1940- Scottdale, 3 giugno 2016)
«Il pugilato è una specie di jazz. Più è bello, meno gente lo apprezza.» (George Foreman Marshall 10 gennaio 1949)

 

Di Alfredo